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Il cambio di destinazione d’uso è ogni forma di utilizzo dell’immobile diversa da quella originaria, con o senza opere edili necessarie per tale cambiamento.
Questo passaggio può essere di tipo rilevante, cioè comportare il passaggio ad una diversa categoria funzionale (come trasformare un locale destinato al commercio in uno di carattere residenziale), oppure di tipo non rilevante quando il cambio non determina il passaggio ad altra categoria (ad esempio, trasformare un’abitazione in affittacamere: entrambe le tipologie appartengono alla categoria residenziale).
In generale, il cambio di destinazione d’uso è sempre ammesso a meno che:
E se l’immobile di cui si vuole effettuare il cambio di destinazione d’uso è soggetto a vincolo ai sensi del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42 (Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio), oppure si trova nel centro storico? È possibile fare il cambio di destinazione d’uso di un immobile storico? Come procedere?
Indice
Nel caso di cambio di destinazione d’uso realizzato dopo l’ultimazione del fabbricato e durante la sua esistenza – realizzato mediante opere edilizie – secondo la Corte di Cassazione, ci troviamo davanti ad una ipotesi di ristrutturazione edilizia secondo la definizione fornita dall’art. 3, comma 1, lett. d) del T.U. Edilizia
“in quanto l’esecuzione dei lavori, anche se di entità modesta, porta pur sempre alla creazione di “un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente”.
Pertanto, l’intervento necessita del rilascio del Permesso di Costruire.
Il caso specifico (Cassazione, III sez. pen., sen. 6873 del 14 febbraio 2017) riguardava Palazzo Tornabuoni a Firenze, dove secondo i giudici, la trasformazione dell’immobile storico in un lussuoso resort a 5 stelle doveva essere effettuato mediante permesso di costruire, e non attraverso singole SCIA, come invece era avvenuto.
La sentenza ha avuto non poche ripercussioni in tutta Italia, bloccando numerosi cantieri dato che le leggi regionali e i piani regolatori generalmente ammettono gli interventi edilizi di cambio di destinazione d’uso mediante semplice SCIA.
Il 23 giugno 2017, un emendamento alla manovrina 2017 ha cercato di rimediare ai problemi generati dalla pronuncia della Cassazione: la modifica ha riguardato la definizione di restauro e risanamento conservativo contenuta nell’art. 3, comma 1, lett. c) del TUE Testo Unico Edilizia.
La modifica consente a questa tipologia di interventi anche il mutamento di destinazione d’uso, purché:
A seguito della nuova definizione di interventi di restauro e risanamento conservativo introdotta quindi dalla modifica all’art. 3, comma 1, lett. c) del TUE, si apre la possibilità di concedere il cambio di destinazione d’uso anche all’interno dei centri storici tramite la presentazione di CILA o SCIA.
Secondo il TAR Toscana (sen. 1009/2017), infatti, la modifica al TUE ha disposto una differenza più precisa tra gli interventi di ristrutturazione edilizia e quelli di restauro e risanamento conservativo.
Un intervento di ristrutturazione edilizia è tale quando viene modificata la distribuzione della superficie interna e i volumi, così configurandosi quel rinnovo degli elementi costitutivi e quell’alterazione dell’originaria fisionomia e consistenza fisica dell’immobile, richiedendo necessariamente il rilascio di un permesso di costruire.
Un intervento di restauro e risanamento conservativo è tale quando sono rispettati gli elementi tipologici, formali e strutturali dell’edificio senza modifiche all’identità, alla struttura e alla fisionomia dello stesso, essendo detto intervento diretto alla mera conservazione, mediante consolidamenti, ripristino o rinnovo degli elementi costitutivi, dell’organismo edilizio esistente, ed alla restituzione della sua funzionalità.
Il Codice dei Beni Culturali impone, con riferimento ai beni oggetto di vincoli culturali, che “opere e lavori di qualunque genere” (anche, quindi, rientranti nella cosiddetta edilizia libera) e “mutamenti di destinazione d’uso” siano sottoposti ad autorizzazione del MiBACT (www.beniculturali.it), tramite la competente Soprintendenza territoriale.
Gli artt. 20 e 21, infatti, prevedono che:
Proprio sulla mancata autorizzazione della Soprintendenza, il TAR Lazio con la sentenza n. 5541/2018 ha specificato che
“un uso può essere vietato solo se concretamente incompatibile con la tutela del bene o qualora ne comprometta la conservazione. Inoltre, occorre una pertinente ed approfondita motivazione delle ragioni ostative, con riferimento al pregiudizio alla conservazione e alla fruizione.”
Considerando quanto previsto dalla normativa e dalla giurisprudenza – vero elemento di supporto interpretativo e quindi applicativo – sul cambio di destinazione d’uso di un immobile storico potremmo concludere che il legislatore collega la necessità di disporre di un permesso di costruire a fenomeni di trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio come la nuova costruzione, la ristrutturazione urbanistica e la ristrutturazione edilizia.
In secondo luogo, demanda alle Regioni di individuare quali interventi – diversi da quelli precedentemente indicati e comportanti trasformazione urbanistica, ma non necessariamente edilizia – richiedano il permesso di costruire in ragione della loro natura ed incidenza, in particolare, sul carico urbanistico.
In ambedue le ipotesi considerate, appare evidente come il permesso di costruire si colleghi sempre ad interventi che incidono sul territorio, trasformandolo sul piano urbanistico – edilizio, o anche su uno solo dei due (Cons. di Stato IV n. 2567/2017).
Possiamo quindi arrivare alla conclusione secondo la quale, in via residuale, alle Regioni è consentito legiferare sui mutamenti d’uso, tranne in quelli operanti nelle zone omogenee A, in cui sono presenti agglomerati urbani di carattere storico, artistico e di particolare pregio ambientale.
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